domenica 11 aprile 2010

“Col Cagliari uno scudetto con i colori di tutta l’isola”

Un mese prima, scrive la storia, un rigore di Riva a otto minuti dalla fine aveva bloccato la Juventus sul 2-2 a Torino nella partita decisiva. Dopo il gol, dipinge la leggenda, Pierluigi Cera, capitano del Cagliari lanciato verso il mito, si rivolse a Manlio Scopigno. «Mister, quanto manca?». Il “filosofo”, dopo avere aspirato l’ennesima boccata dalla quarantesima nazionale del suo pomeriggio, ribatté serafico: «A cosa?».

12 aprile 1970, 40 anni fa esatti, terzultima di campionato. Il Cagliari di Albertosi e Giggirriva, l’1 e l’11 quando i numeri avevano ancora un senso, ospita il Bari: ha 3 punti di vantaggio sui bianconeri. Nel frattempo, la Juve perde a Roma contro la Lazio. 240 presenze in rossoblù e una vita dopo, Pierluigi Cera ha 69 anni, vive a Cesena e il solo ricordo gli fa brillare gli occhi. «2-0 per noi, segnano Gigi e Bobo Gori. Qualcosa di unico e irripetibile»: Cagliari campione d’Italia.

Cera, riavvolgiamo il nastro della memoria?
«Avevamo spezzato l’egemonia delle grandi squadre del Continente, e del Nord soprattutto. Vincere a Cagliari è diverso, vale di più».

Vinsero una squadra, una città, un popolo. Uno scudetto che sapeva di riscatto sociale.
«L’Amsicora non era coperto e gran parte delle tribune erano in tubi Innocenti. Eppure alle 10 di ogni domenica era già pieno. Molta gente viaggiava tutta la notte, spesso in condizioni difficili, facevano enormi sacrifici per vedere noi. Era il pubblico più bello e corretto che avessi mai visto. Dovevamo ricambiarlo».

Voi sentivate il peso di quella maglia?
«Non il peso ma l’orgoglio di rappresentare Cagliari e la Sardegna. Erano tempi diversi, davvero i colori ce li sentivamo dentro. I calciatori, oggi, sono daltonici».

Eppure non c’erano sardi in quella squadra.
«Vero, ma non è un caso che molti di noi siano rimasti a vivere a Cagliari. È che i sardi ti danno tutto, è nella loro mentalità. Quando torno è sempre una festa».

A Cagliari lei giunse nel 1964 e arrivò sino alla Nazionale.
«Tenni a battesimo la squadra in serie A e, quando Scopigno mi inventò libero per l’infortunio di Tomasini nell’anno dello scudetto, ecco l’Italia. In Sardegna sono rimasto 9 anni meravigliosi. E pensi che all’inizio non volevo andarci».

Perché?
«La lontananza, i disagi: si ricordi che ai tempi i calciatori non avevano alcun potere decisionale. Giocavo a Verona, ma era il periodo della congiuntura, anche nel calcio: il Cagliari beneficiò della presidenza di Corrias, che era anche a capo del Credito Industriale Sardo. L’allenatore era Arturo Silvestri: l’accordo era di rimanere pochi mesi. Lui poi fece di tutto per trattenermi. Fu la mia fortuna».

Che gruppo era il vostro?
«Molto affiatato. Allora, quando giocavamo in trasferta i ritiri duravano anche una decina di giorni. Ci frequentavamo fuori dal campo, siamo rimasti amici».

Scopigno?
«Gli volevamo bene, un personaggio di straordinaria umanità oltre che un grande allenatore. Alcune sue uscite erano memorabili».

Come quella di Juventus-Cagliari?
«Una storia diventata un classico. Ma non è vera».

Adesso non ci dica che è solo leggenda?
«No, ma è stata raccontata diversamente. Si riferiva all’esordio di Scopigno con il Cagliari. 1966, prima giornata di campionato a Lecco. Stavamo vincendo, gli chiesi i minuti. La sua risposta? “Ma dai, dove vuoi che vadano…”. Era fatto così. Imparai a non chiedergli più quanto mancava, tanto era inutile».

Quale fu l’impresa di quella stagione?
«Avere chiuso i conti con due giornate di anticipo: la vittoria valeva solamente due punti e le partite di campionato erano trenta. Poi vincemmo anche l’ultima gara a Torino contro i granata per quattro a zero perché non eravamo ancora sazi».

Avreste potuto vincere di più?
«Chissà, certo eravamo uno squadrone. L’anno prima giocammo addirittura meglio, ma finimmo solo secondi».

Messico 1970, sei rossoblù ai Mondiali.
«Arrivammo in finale. In fondo, ci batté solo Pelè». http://tinyurl.com/ycu3pvh

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